Partiamo da Maria Elena Boschi. Ieri la sottosegretaria con delega alle Pari opportunità, in vista della giornata di oggi contro la violenza di genere, ha elogiato il nuovo “Piano antiviolenza per i prossimi tre anni, strategie concrete a 360 gradi, se vogliamo anche molto ambiziose”. Con tanto di fondi: “33 milioni, sono tanti di più rispetto al passato, dal governo Renzi al Governo Gentiloni ogni anno abbiamo incrementato le risorse”. Insomma, meglio di così non si potrebbe. Peccato, però, che il Piano annunciato – che la Boschi dice “per i prossimi tre anni” ma che in realtà già sarebbe dovuto partire siccome dovrebbe coprire il periodo 2017-2020 – resta ancora tutto da definire.
L’unica cosa che si sa ad oggi, infatti, è che è stato approvato in Conferenza Stato-Regioni il “Quadro strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne”. “Ma ora dobbiamo attendere l’approvazione del presidente del Consiglio e la pubblicazione in Gazzetta – spiega Titti Carrano, avvocato ed ex presidente di una delle associazioni più impegnate nell’ambito, D.i.re (Donne in rete contro la violenza) – e comunque parliamo di un quadro che delinea azioni e desiderata del Governo per agire e prevenire la violenza. Non è ancora un piano. Andranno cioè delineati tempi, azioni e relativi finanziamenti. Siamo sul piano teorico ancora”. Ecco allora che già l’entusiasmo boschiano tende ad affievolirsi.
Buchi nell’acqua – Ma non è tutto. Gli auspici, anche restando sul teorico, non sono dei migliori. “Sin da febbraio – ci dice ancora la Carrano – abbiamo criticato il documento del Governo”. La ragione? Semplice: i centri antiviolenza, e dunque chi nel concreto conosce meglio di chiunque altro dove intervenire e su cosa, rimarrebbero esclusi dalle Cabine di regia nazionale e regionali che gestiranno operativamente gli interventi. Insomma, non si interpella chi conosce il problema. Col rischio che i tanti fondi annunciati dalla Boschi si perdano in progetti non in linea con le esigenze del caso.
Eppure, si dirà, nell’ultimo aggiornamento (9 novembre) la sottosegretaria ha sottolineato come “l’utilizzo dei finanziamenti ha comportato, negli ultimi anni, un significativo aumento delle strutture a sostegno delle vittime di violenza”. Se nel 2013 i centri antiviolenza erano 188 e 163 le Case rifugio, oggi sono passati i primi a 296 e le seconde a 258. Peccato che le cose stiano in maniera diversa. “Oggi non c’è una mappatura vera dei centri antiviolenza – sottolineano ancora da D.i.re – Quella che esiste non risponde alla realtà dei fatti. E questo è un danno enorme per le donne”. Il problema nasce dalla prima intesa sui centri antiviolenza, stipulata nel 2014. In quella intesa si definivano gli standard dei centri antiviolenza e case rifugio. Standard, però, troppo generici che hanno permesso a una marea di associazioni che fino a quel punto si erano occupate di altro, di modificare lo statuto e accedere ai fondi. Ecco spiegato la crescita dei centri come funghi. Una crescita, però, non accompagnata da un reale beneficio per le donne.
Fondi fantasma – C’è, infine, il problema dei fondi. Al di là dei tanti annunci, come sono stati impiegati finora i soldi? “La tranche 2013/2014 è stata un disastro assoluto – continua ancora la Carrano – tanto che è intervenuta anche la Corte dei conti a denunciare la cosa”. Per quanto invece riguarda i fondi 2015/2016 a parlare è l’ultimo monitoraggio disponibile (luglio 2017) dal quale emergono le quote assegnate dallo Stato alle singole Regioni. Peccato che la trasparenza sia un optional. Qualche esempio? In Campania sono stati assegnati 1,2 milioni ma dal report le caselle relative ai beneficiari e i progetti finanziati sono vuote. Peggio ancora va in Sardegna. Risulta che la Regione abbia ricevuto 384mila euro dallo Stato. Ma dal monitoraggio risulta che i fondi nemmeno sono stati stanziati a centri o progetti.
Tw: @CarmineGazzanni